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Per attivare l’empatia continuiamo a raccontare storie

Finché Yusuf avrà bisogno la porta sarà aperta per lui.

Non si contano le infografiche e i dati diffusi in questi giorni in tv, sui nostri canali social e nei giornali come reazione ai proclami del ministro dell’Interno e alla sua propaganda anti-immigrati, fatta di slogan che hanno avuto anche conseguenze dirette sulla pelle di 629 persone a cui nelle scorse settimane è stato negato un approdo sicuro, obbligando la nave di soccorso Aquarius su cui viaggiavano ad allungare il tragitto di parecchi giorni verso la Spagna (per chi si fosse perso i dettagli della vicenda consiglio di recuperare con il reportage di Annalisa Camilli su Internazionale).

Ma tu cita un numero a un salviniano convinto e lui ti risponderà che non importa, perché “il degrado” che è costretto a subire come cittadino italiano per la presenza di anche un solo straniero nel suo quartiere gli dà il diritto di rifiutare l’ingresso a chiunque.

Fagli vedere la foto di un bambino su quella nave e ti dirà che non è abbastanza malnutrito per meritarsi lo status di rifugiato o anche soltanto l’umano sentimento della compassione per un bimbo costretto a certe condizioni di viaggio.

E quindi? Smettiamo di citare numeri e cifre, di dare notizie? No, assolutamente. Ma, se dobbiamo usare i dati, facciamolo sempre, non solo quando diventa urgente dimostrare di aver ragione. Ne abbiamo parlato anche al corso di Data visualization per non profit che abbiamo tenuto sabato con Human Foundation, sfruttando questo efficace tweet di Zerocalcare:

Quando i dati non bastano

Scrive Fabrizio Martire in un post su Medium in cui racconta cosa ha imparato con la gestione dei social durante la campagna elettorale per le comunali 2018 a Brescia:

L’uso strumentale di mezze verità guida il consenso (la rabbia) popolare sui social network.

E cita l’esempio di una notizia falsa sull’inaugurazione di un parcheggio dedicato ad Allah, con tanto di benedizione del sindaco.

I dati, le agende e le spiegazioni utilizzate dal centro sinistra non hanno minimamente scalfito la furia online di chi gridava alla forca senza nemmeno rendersi conto che il sindaco uscente non era mai stato a quell’inaugurazione.

Pare che i dati puri non servano nemmeno a persuadere i decisori pubblici a intraprendere o meno strategie per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni che amministrano. In questo studio citato da Oxfam su 10 anni di “miglioramenti alla sanità del Guatemala” è emerso come tra i vari strumenti usati per convincere i governanti ad adottare politiche migliori, i dati raccolti con sondaggi anonimi sono stati tra i meno efficaci.

 

 

Nell’immagine si vede chiaramente come il coinvolgimento delle comunità nella partecipazione alla definizione del problema, al racconto in prima persona di quello che stavano passando, ha invece prodotto una risposta positiva da parte del governo. Anche perché i sondaggi venivano usati dal governo per ribattere con questioni tecniche e respingere quindi le richieste di cambiamento. Davanti alla storia di una persona in carne ed ossa, in video, in foto, e con i messaggi sui disservizi ricevuti in tempo reale via sms, è diventato più difficile tirarsi indietro.

Incontrare le persone è incontrare le loro storie

Nel clima di paura e diffidenza alimentato dai politici di tutto il mondo (dai nostri porti chiusi ai bambini in gabbia al confine tra Messico e Stati Uniti), ho avuto occasione di incontrare la storia di Alessandra, Ludovica e Yusuf, grazie a un’iniziativa di UNHCR e di Refugees Welcome Italia, nell’ambito degli eventi della #RefugeeWeek (oggi, 20 giugno, è la Giornata Mondiale del Rifugiato).

Refugees Welcome è un’organizzazione nata nel 2015 in Italia come costola della sua omonima in Germania, per aprire l’accoglienza dei rifugiati alle famiglie italiane. Funziona come una sorta di airbnb, con la mediazione di un facilitatore: una famiglia si registra sulla piattaforma e un attivista di RW li contatta per aprire la pratica di ospitalità. Tutto è fatto su base volontaria: le famiglie non ricevono rimborsi spese, a volte aprono campagne di crowdfunding per autosostenersi di loro iniziativa.

Alessandro e Ludovica hanno aperto la loro casa, ma anche la loro quotidianità, più di sei mesi fa, e così ha fatto Yusuf, che a 18 anni è arrivato in Italia dopo 8 difficili mesi in Libia. Yusuf neanche ci voleva venire in Europa, stava lavorando in Senegal e in Mali quando l’azienda per cui era impiegato è fallita e lui si è spostato in Libia per trovare una nuova occupazione. Oggi di anni ne ha 20 e grazie all’accoglienza in famiglia può continuare il suo percorso di integrazione che, purtroppo, per ogni richiedente asilo rischia di interrompersi una volta concluso l’iter nei centri di accoglienza. Alessandro, nella diretta Facebook di ieri, ha detto una cosa fondamentale quando gli ho chiesto come hanno reagito amici e parenti a questa nuova convivenza:

L’accoglienza diffusa in famiglia ha un senso sotto molti aspetti, ma soprattutto è un mezzo per far sì che la diffidenza delle persone venga messa in discussione dalla conoscenza diretta di Yusuf. Finché ci sarà una separazione geografica, fisica, finché ci saranno i centri di accoglienza con centinaia di ragazzi con poco scambio con l’esterno rimarrà difficile rompere il muro di diffidenza e di paura tra “noi” e “loro”.

Davanti alla storia di Yusuf e a quella di chi lo ha accolto è difficile continuare a mantenere un punto di vista di chiusura.

Sono sostenitrice di una cultura data driven in tutte le organizzazioni non profit, dalla più piccola onlus di provincia ai giganti del terzo settore (non potrebbe essere altrimenti), ma questa deve essere accompagnata sempre dall’idea di mettere “il decisore” (e il cittadino) nelle condizioni comprendere a fondo il punto di vista dell’altro, e considerare quando il dato non basta. Alle Nazioni Unite hanno sperimentato con la realtà virtuale e pare che abbia funzionato:

7mila persone hanno provato l’esperienza. Dopo ogni proiezione abbiamo presentato agli spettatori una serie di azioni che potevano fare per attivarsi concretamente a favore dei rifugiati, dalla possibilità di effettuare donazioni, all’iscrizione ad attività di volontariato. Ciò che è emerso è che l’87% delle persone hanno aumentato il proprio impegno nei confronti dei rifugiati e il 73% ha deciso di agire concretamente, donando tempo o denaro. L’Unicef, che ha utilizzato il film come strumento di fundraising, ha raddoppiato le donazioni e la quota della singola donazione è aumentata in media del 10%.

 

Alessandro e Ludovica hanno aperto la porta di casa loro a Yusuf e a chiunque voglia conoscere la loro storia, forse alla tua associazione basta fare altrettanto.

 

(Un grazie speciale a Simone Sala che mentre scrivevo questo post mi ha mandato il link sul caso del Guatemala e mi ha permesso di allargare il discorso oltre al tema del caso rifugiati)

 

 

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