[Questo post è stato pubblicato originariamente su RiccioCapriccio per la rubrica Shoot the runner]
Sono stata a New York per correre la maratona. Quella per cui tutti ti chiedono, dopo: “ma proprio quella maratona che penso io? quella di 42 chilometri?” Sì, ma la maratona è sempre di 42 chilometri. “Wow, che brava”. Sì, ragazzi, l’avevo già corsa a Roma e dov’era tutto questo entusiasmo? “Eh, ma New York è più grande, è più lunga”. No, sono sempre 42 chilometri (195 metri), ve lo assicuro.
Lunghezza a parte, è vero che quella gara è speciale. Non ci ho creduto finché non l’ho corsa. L’organizzazione è perfetta: gestire più di 50mila runner in una città di 8 milioni di abitanti, a pochi giorni da un attentato terroristico, richiede uno sforzo economico e una competenza incredibili. E i volontari presenti dal porto di Manhattan, dove i runner prendono il traghetto per Staten Island, dove si trova la partenza, fino all’arrivo, e anche oltre, quando ci vestono con il classico caldo poncho blu, alla fine della gara, sono incredibili.
Vi porto con me alla partenza, così potete capire di cosa sto parlando.
Il villaggio degli atleti, a Staten Island, è un immenso parco organizzato per settori: ci sono le zone relax con i cani della pet therapy, un centro per pregare, i banchetti dei “bagel”, quelli del caffè e della cioccolata, delle barrette energetiche. Non mancano i bagni, il reparto medico. Siamo svegli almeno dalle 5 di mattina e prima di correre dobbiamo aspettare ore, ci sono quattro turni che partono dalle 9.20 alle 11.40. Io sono nella terza griglia, quelle delle 10.40.
Mangio un bagel. Faccio la coda per il bagno. Vado a trovare i cagnolini della pet therapy. Faccio di nuovo la coda per il bagno. E poi ci chiamano: “Blu corral, turno delle 10:40, incamminatevi!”. Lungo la linea di partenza, che dovete immaginare lunghissima, divisa in tre parti (blu, verde e viola), ci sono i cassonetti delle organizzazioni non profit che raccolgono i vestiti caldi che ci siamo portati nell’attesa e che abbandoniamo prima di partire.
Ed eccolo, il ponte di Verrazzano davanti ai nostri occhi. Siamo pronti ad attraversare la città nei suoi cinque distretti: la vedremo cambiare chilometro dopo chilometro, anzi miglio dopo miglio, come contano qui, e ci godremo le facce dei newyorkesi venuti a tifare, di ogni colore di ogni età di ogni condizione.
Siamo tantissimi, la marea di gente in cui sono immersa da quando ho preso la metropolitana alle 6 non finisce di stupirmi.
Poi eccolo: boom, il cannone della partenza! Siamo noi, andiamo.
Non riesco a smettere di sorridere, sto correndo, la maratona, a New York!
Nemmeno 500 metri ed ecco che rischio di piangere subito: mi supera una ragazza, sulla maglietta ha scritto:
La persona che ti sta davanti sta combattendo un cancro.
Brividi. Mi guardo attorno, quasi ogni runner ha scritto qualcosa sulla propria divisa: “corro per….” mia figlia, mio marito, i bambini ammalati di tumore, per un’organizzazione che lotta contro la povertà.
Il motivo per cui correre cucito addosso.
La ragazza che mi ha superato all’inizio non la trovo più. E intanto siamo entrati in Brooklyn, dove centinaia di migliaia di persone ci accolgono gridando i nostri nomi, allungando la mano per il cinque, offrendoci cibo, caramelle, fazzoletti. La città è lì per noi.
Continuo a leggere le magliette. Mi chiedo se io ce l’ho un motivo così forte che mi spinge a correre per quarantadue chilometri. Perché sono lì? Perché sono viva, mi dico. Perché è un bel modo per far sentire al tuo corpo che sei viva.
E poi ne trovo un altro di motivo per andare a prendermi la medaglia, senza fermarmi nemmeno sui ponti più duri, come il Queensboro Bridge, che ci porta dal Queens a Manhattan.
Sento il tifo delle persone che sono lì, per le strade di New York, di Marianna e Bianca, che hanno viaggiato con me e salgono e scendono dalle metropolitane per sbucare agli appuntamenti che ci siamo date lungo il percorso. Quando le vedo si accelerano i battiti e anche il ritmo di corsa.
Sento anche il tifo a casa, di tutti quelli che mi hanno scritto messaggi, che mi stanno seguendo sulla app della gara, li vedo, quasi, ai bordi della strada. Sono le allucinazioni della fatica, ma non importa, perché è bello così.