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La maledetta benedetta zona di comfort

Nella vita, ultimamente corro. Molto. Sto preparando una maratona. Preparare una maratona è un investimento emotivo, prima che fisico. Lo sa bene chi è costretto a fermarsi per un infortunio. Se quello che ho scritto da qui in avanti vi sembrano troppo fatti miei è perché lo sono.

È che non voglio più sentir parlare di “come uscire dalla zona di comfort”.

1. Come mi ha detto un amico “nel preparare una maratona imparerai più cose su te stessa che in anni di vita”.

2. Quello che mi sta succedendo mi ricorda la prima volta che ho provato a praticare meditazione mindfulness, una pratica che, per dirla facile, si basa sul vivere il momento presente usando il respiro come oggetto di meditazione. Una cosa tanto semplice quanto potente, che non serve assolutamente come tecnica di rilassamento, ma anzi come strumento di conoscenza di sé e di come funziona la propria mente. Ritrovo la stessa potenza e lo stesso stupore nell’osservare cosa succede nella mia testa quando faccio i lunghi (28, 30, 36 chilometri): vedo con chiarezza la Donata sul lungotevere che cerca di convincere se stessa e le sue gambe ad andare avanti, ma vedo anche la Donata che è in ufficio, che risponde a email, che incontra clienti, che affronta problemi, che compie scelte di vita.

3. Mi capita sempre più spesso che ogni uscita di allenamento assomigli a una micro giornata, con un inizio, una durata e una fine, con emozioni che riconosco come proprie dell’allenamento ma in generale di come affronto il resto della mia quotidianità: a volte c’è il rifiuto (“ma perché devo fare questo allenamento così duro”), poi può arrivare l’incitamento (dai che ce la puoi fare, lo hai già dimostrato), la sensazione di fare bene e di essere in grado di portare a termine il lavoro, oppure di fare molto male e quindi lo scoraggiamento con il classico “basta, io smetto, non sono capace”.

4. Gli atleti misurano tutto e ogni dato è prezioso per capire se stanno facendo bene o male. Per conoscere il ritmo con cui un runner dovrà correre una certa gara, oppure allenarsi, c’è un test, quello sui 10km, in cui si stabilisce il ritmo gara (RG). Io non sono mai andata sotto i 5.20–5.30km, che vuol dire correre i 10 chilometri in 55 minuti circa.

5. A fine gennaio cambia tutto: vado a eseguire il test incrementale VO2Max, che serve per misurare il mio massimo consumo di ossigeno ma anche verificare il ritmo gara. Io sono su un tapis roulant e c’è il mio coach, Matteo, che mi dice “corri più che puoi”.

6. Io “corro più che posso”. Alla fine il coach dice: “hai combinato un casino”.


Ho sempre odiato questo disegno. Fa sembrare tutto così facile: “fai un passo fuori dal cerchio e vedrai che bella ed eccitante diventa la tua vita”.

Non so se vi è mai capitato di farlo questo passo fuori dal cerchio, ma vi assicuro che far accadere quel “magic” non è così facile come indica la freccia.

Prima di tutto ti rendi conto di quanto ci stavi bene nel comfort. Di quanto era accogliente. E soprattutto conosciuto, con pochi rischi: non lo sai finché non lo abbandoni e ti chiedi “questo magic vale davvero la pena”? Perché non è che esci dal confort e il magico arriva subito.

All’inizio hai l’entusiasmo della novità. Aah, finalmente questa routine confortevole ce l’ho alle spalle, basta noia, basta giornate sempre uguali. Sei carica di energia per quello che ti aspetta. È merito della dopamina o della serotonina. Oppure delle endorfine.

Insomma, ne produci in abbondanza e ti tengono su nonostante la fatica.

Poi qualcosa va storto. Non tutto procede come avevi pianificato. E la parte di “the magic happens” ci mette un po’ ad arrivare. È lì che cominci a pensare con nostalgia alla noia mortale che provavi nella tua bolla cuscinetto protetta da ogni novità. Ma ormai sei fuori. Quel cerchio è chiuso. Stai comunque viaggiando verso qualcosa di nuovo.

E finalmente the magic happens. Non è come avevi immaginato. Si porta dietro tutta la fatica del percorso. Devi fermarti e sgranare gli occhi per capire che sta succedendo davvero.


7. Il casino è che ho sfondato la bolla. Sono uscita dalla zona di comfort. Il test dice che corro 10km a poco più di 12km all’ora, il mio nuovo ritmo gara è 4’50’’, circa.

8. Questo cambia i piani, il cerchio del comfort si è chiuso dietro di me, si entra in quello della magia.

9. Il coach dice che posso correre più veloce di così e io lo faccio. E questo mi fa capire una cosa:

Quanto siamo bloccati dalle definizioni che ci cuciamo addosso.

Le definizioni che usiamo per parlare di noi sono una zona di comfort. “Sono fatto così”. “Sono lento”. “Sono ritardatario”. “Non sono portato per le lingue”. “Non riesco ad alzarmi la mattina presto”, ecc.

Se lavori come freelance o se per il tuo lavoro sei costantemente messo in gioco per le tue idee, se fai un lavoro creativo, frasi come queste — anzi, credo pure peggio di queste — te le ripeti di continuo a ogni ostacolo.

Quando però provi a sfidarle, cambia tutto.

10. Sono veloce. Martedì commento un allenamento con la frase “non correrò mai su strada 10km a 4’50”. Una settimana dopo lo faccio.

11. Alla maratona mancano 14 giorni, 12 ore, 40 minuti. Sarà un massacro, sarà una meraviglia, sarà la sofferenza, sarà la magia.

Smettetela di parlarmi di come uscire dalla zona di comfort.

[L’immagine di copertina arriva da uno screenshot dell’episodio 3, stagione 2, di Girls, dove la caporedattrice di una rivista online chiede alla protagonista, Hannah Horvath (Lena Dunham), di uscire dalla propria zona di comfort per scrivere un pezzo: sniffare cocaina, fare sesso a tre con uomini conosciuti online…ecco, la sua espressione dice tutto.]