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Cinque ossessioni sul lavoro da freelance

Cinque cose sul lavoro da freelance che ho capito nel 2015 e che mi porto nell’anno nuovo.

1. Freelance: abbracciare il caos può essere una soluzione.

Sarà piuttosto caotico, ma abbracciate il caos. Sarà complicato, ma gioite delle complicazioni. Sarà del tutto diverso da come avevate pensato, ma le sorprese vi faranno bene. E non spaventatevi: potrete sempre cambiare idea. Io lo so bene: ho avuto quattro carriere e tre mariti. (Nora Ephron)

Essere precari, freelance, liberi professionisti o semplicemente essere nati negli anni Ottanta fa sì che molti di noi a trent’anni non abbiano ancora deciso cosa fare da grandi. I 30enni di dieci anni fa avrebbero trovato incomprensibile questo costante tormento interiore che ci impedisce di buttare direttamente nel cestino le email con proposte di summer school e internship all’estero. Perché “accumulare esperienza”, oltre a titoli di studio, è un mantra che non abbiamo tatuato addosso solo perché il trauma di compilare format di curriculum chilometrici, come il famoso Europass, ha già lasciato cicatrici in molti di noi.

When reality turns out to be worse than the expectations, they’re unhappy.

Noi ci proviamo a definire la nostra identità attraverso l’etichetta di una professione. Ma quest’anno ho capito e accettato che non è possibile. Perché alla domanda “cosa fai/ di cosa ti occupi” da cinque anni ormai rispondo “quando?” chiedendo di precisare l’orario della giornata.

Essere “multipotenziali” però non è un difetto, ma istinto di sopravvivenza, come conferma Emilie Wapnick nella sua Ted conference, Why some of us don’t have one true calling, dove spiega che “considerare negativa o anormale la capacità di fare molte cose” (e la voglia di investire in ognuna di queste vocazioni) è questione di cultura. E può essere cambiata.

2. Cerca altri come te e fai squadra.

Non mi piace essere solo. Ma le persone che ho intorno non sono un entourage, sono una squadra. Ne ho bisogno per la loro compagnia, i loro consigli e per una sorta di formazione continua. Sono il mio equipaggio, ma sono anche i miei guru, il mio gruppo di esperti. Li studio e prendo qualcosa da ognuno. (Andre Agassi, Open)

Anche solo per confrontare salari, preventivi, clienti. La solitudine è la peggiore condizione in cui si può lavorare, a meno che tu non stia scrivendo un romanzo e voglia, giustamente, una stanza tutta per te. Se invece sei un libero professionista — precario, freelance, ecc — cerca tuoi simili e apri una chat su Facebook, Whatsapp, Slack, Telegram: dalle chiacchiere spesso nascono progetti, e, perché no, anche idee per monetizzare le competenze.

Grazie ai festival di giornalismo come quello di Perugia e di Varese oggi posso dire di essere quella che sono, in termini di consapevolezza del mercato, e per averci incontrato la maggior parte delle persone con cui collaboro. Il networking dà lavoro, investiteci (Domitilla ci ha scritto un libro, se non credete a me).

3. Lavorare bene con chi lavora bene

Always take a chance on better, even if it seems threatening. (Ed Catmull, Creativity, Inc.)

Il 2015 è stato l’anno in cui ho letto il libro-autobiografia e manuale per manager del fondatore della Pixar, Ed Catmull. In cui sostiene due principi fondamentali: “il capo deve chiedersi se i suoi collaboratori stanno bene e sono nelle migliori condizioni di lavorare” e “bisogna essere pronti alle critiche, accettare di sbagliare e ricominciare”. Anche da freelance si può fare tesoro di questi slogan, che Catmull si impegna ogni giorno — così racconta — a rendere concreti negli studi di Pixar e di Disney. Quest’anno ho imparato a scegliere così le persone e i clienti con cui collaborare: riunioni convocate dal mattino al pomeriggio? No, grazie. Consulenze poco chiare nella forma e nel salario? No, grazie. Capi che non condividono con te gli obiettivi e che ti fanno sentire la pressione di un chirurgo pediatrico al pronto soccorso? No, grazie, basta.

4. Le persone continuano a fidarsi di altre persone

Devi molto a chiunque ti abbia mai dato fiducia. (Truman Capote)

Prima di Natale due amici, distanti tra loro per età, geografia, rapporto con la sottoscritta e posizione lavorativa, mi hanno chiesto aiuto per trovare una onlus a cui devolvere una somma come “dono natalizio” per i propri clienti. Si sono rivolti a me considerandomi una persona “affidabile”, in termini di conoscenza del mondo del volontariato e del non profit. Anche Irene Bernardini, psicoterapeuta e firma di Vanity Fair, racconta in questo pezzo come si è fidata di un’altra persona, Giacomo, per scegliere di devolvere ogni mese una piccola somma per aiutare i progetti di un’organizzazione umanitaria. Giacomo era per lei uno sconosciuto che è stato in grado, in pochi minuti, di costruire una vera relazione con una probabile futura donatrice. In questo caso è Save The Children ad aver investito bene e scelto la “persona” giusta da mandare in strada ad approcciare nuovi sostenitori.

Questa ossessione si può riassumere quindi con un’altra ossessione: “Il digitale è cultura, non comunicazione”. In pratica, se non sei social offline, difficilmente puoi dimostrarlo di essere online.

5. Trova ogni occasione per imparare

Tutti vogliono cambiare il mondo, ma nessuno vuole cambiare se stesso. (Lev Tolstoj)

Imparare ogni giorno è uno dei miei obiettivi professionali, insieme a quello di “aiutare le storie a incontrare i lettori”, come ho scelto di spiegare nella mia biografia di Twitter. Se manca un’opportunità di apprendimento nel mio lavoro quotidiano, mi sento realizzata a metà. E visto che il 2016 è il mio primo anno da partita iva, nella formazione voglio anche investirci dei soldi: comincio con un percorso della Digital Update.

Diffida di chiunque pretenda di non avere nulla di nuovo da capire e imparare.

Bonus track: guarda una Ted Talk ogni mattina.