Foto di Alessio Romenzi
Foto di Alessio Romenzi

Perché l’unica storia da raccontare in tempo di guerra è come poter vivere senza paura. Basta un attimo e tutto può finire. Se l’avessi capito prima, allora non avrei avuto paura di amare, di rischiare, nella mia vita – invece di ritrovarmi qui, adesso, in quest’angolo buio e puzzolente, a rimpiangere disperatamente tutto quel che non ho saputo fare, tutto quel che non ho saputo dire finora. Tu che domani sei ancora vivo, cosa aspetti? Perché non ami un po’ di più? Tu che hai tutto, di cos’hai paura? – Francesca Borri

Se i giornali italiani chiedono “sangue e morti” nei reportage dalla Siria e pagano 70$ al pezzo. Se ti chiedono di mettere il nome del loro corrispondente al posto del tuo in prima pagina. Se i colleghi al fronte ti chiedono come stai in quanto “donna” a veder bimbi che muoiono. Se la competizione tra freelance è praticamente una guerra dentro la guerra e tu rischi di lasciarci la vita.

Di tutto questo parla la lettera, lo sfogo, il bellissimo pezzo di Francesca Borri pubblicato dalla Columbia Journalism Review e tradotto integralmente da La Stampa. Francesca si occupava di diritti umani e ha scelto di tornare a scrivere quando si è accorta che “power players were more upset by what she wrote than what she did as a jurist”.

Un pezzo che va letto integralmente prima di essere commentato e condiviso su social network. Anche se Twitter Francesca scrive:

 

AGGIORNAMENTO

Con la pubblicazione del pezzo si è scatenato un bel dibattito. Da una parte c’è una critica a Francesca Borri per aver alimentato il sistema di sfruttamento che lei stessa critica, accettando di essere pagata 70$ al pezzo. Poi ci sono alcune inesattezze sulla sua biografia , per cui Valigia Blu chiede un factchecking alla stessa Borri, ma anche alla CJR che per prima l’ha pubblicata.

L’ultimo contributo al dibattito, sempre su Valigia Blu, è una bellissima testimonianza di Barbara Schiavulli sui freelance in guerra. Non toglie niente a quello che scrive Francesca, anzi aggiunge dettagli e rivela nomi e compensi percepiti da ogni testata. È una vita difficile, ma non  si può chiedere a chi fa questo mestiere “di tornare a casa” perché ormai bastano Twitter e il citizen journalism:

Non ho mai mollato, nonostante sia stata in equilibrio sul baratro diverse volte, invece sono ancora qui, perché amo questo lavoro. Perché non c’è niente di più importante che sapere che si sta facendo la cosa giusta. E chi dice che è una mia scelta, dico che non si sceglie di essere se stessi, lo si è e basta.